Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)
NOTE
E NOTIZIE - Anno XXI – 01 giugno 2024.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del
testo: BREVI INFORMAZIONI]
Sindrome di Down: un’analisi multi-omica identifica nuovi target terapeutici.
Mohit Rastogi e colleghi
hanno realizzato profili multi-omici dell’ippocampo e della corteccia nella
sindrome di Down (Trisomia 21 o G) umana, identificando vari processi
de-regolati. In particolare, hanno identificato elementi distintivi nell’assonogenesi
e nello sviluppo di proiezioni cellulari associati con i deficit di
polarizzazione neuronica tipici della sindrome. Questo studio, a nostro avviso,
è una notevole risorsa per nuove indagini sulla fisiopatologia cerebrale della
sindrome di Down. [Cfr. Neuron – AOP doi: 10.1016/j.neuron.2024.05.002, May 28, 2024].
La resezione chirurgica nella terapia
dell’epilessia del lobo parietale: una valutazione analitica.
La chirurgia dell’epilessia intrattabile del lobo parietale può essere efficace
e risolutiva, ma è associata al rischio di gravi deficit neurologici. Gates e
colleghi hanno analizzato tutti gli studi condotti in materia da gennaio 1990
ad aprile 2022, realizzando una rassegna ragionata e una valutazione dell’impiego
del trattamento operatorio (sarà in stampa il 25 giugno). Sebbene una percentuale
significativa dei deficit neurologici post-operatori sia transitoria, vi è
ancora un rischio rilevante di deficit motorio. [Cfr. Neurology – AOP doi:
10.1212/WNL.0000000000209322, May 30, 2024].
Le basi neurobiologiche della resistenza
naturale a traumi ed eventi stressanti. La capacità di molti
individui della nostra specie di conservare processi fisiologici e
comportamentali normali nonostante l’esposizione a grave stress è
definita resilience o “resistenza”. Dopo 15
anni di ricerca sulla biologia della resistenza allo stress, disponiamo
oggi di così tante acquisizioni nuove in questo campo da poter radicalmente
cambiare l’approccio terapeutico ai disturbi da stress, dal PTSD ai
disturbi d’ansia e alla depressione. Eric J. Nestler e Scott. J. Russo presentano
una rassegna esaustiva delle scoperte sui processi di natural resilience,
utile a psichiatri e psicoterapeuti, oltre che a ricercatori di ambito
neuropsicofarmacologico impegnati nella ricerca di farmaci anti-stress. [Cfr.
Neuron – AOP doi: 10.1016/j.neuron.2024.05.001, May
24, 2024].
Disturbi depressivi: i livelli sierici
di GDNF sono connessi col deficit cognitivo. La disfunzione
cognitiva conseguente alla fisiopatologia depressiva è stata messa in rapporto
a fattori neurotrofici e infiammatori. Pedro Borges de Souza e colleghi hanno
rilevato che in soggetti di sesso maschile affetti da disturbo depressivo
maggiore (MDD) i livelli sierici di GDNF possono essere indicatori previsionali
del rilievo soggettivo di inefficienza cognitiva. [The European Journal of Psychiatry 38 (4): 100258,
October – December 2024].
Intelligenza Artificiale (AI): OpenAI presenta
“ChatGPT Edu” per le università.
Presentata come una rivoluzione nell’insegnamento universitario, ChatGPT Edu, potenziata da GPT-4o, è uno strumento avanzato di Open
AI concepito per integrare le risorse umane ordinariamente impiegate nelle
procedure didattiche accademiche e dei campus. ChatGPT Edu
supporta l’analisi dei dati e il ragionamento testuale e visivo, eccellendo
anche in procedure matematiche e di codifica; include, inoltre, strumenti per
il browsing del web e per riassumere il contenuto di testi. La
Wharton University l’ha sperimentata per migliorare le esperienze di
apprendimento riflessivo degli studenti, mentre la Columbia University l’ha
adottata per un programma basato su comunità e finalizzato a ridurre la
mortalità da overdose. [Fonte: Neuroscience News, May
30 2024].
La sorprendente precocità dell’apprendistato
tecnico degli oranghi di Sumatra. Le abilità
tecnologiche degli oranghi di Sumatra, definite “ingegneristiche” dagli etologi,
cominciano a svilupparsi molto precocemente. A sei mesi di età, quando i
lattanti della nostra specie sono alle prese con il controllo del tronco nel
tenere la stazione assisa, i piccoli degli oranghi cominciano già ad esercitare
le abilità necessarie a costruire il rifugio abitativo in cima agli alberi,
convenzionalmente detto “tana”. L’addestramento va avanti per molti anni, e gli
adulti sono capaci di realizzare lavori che hanno pochi confronti fra i primati
sub-umani. [Fonte: Elizabeth
Anne Brown, Science News, May 2024].
La caccia in cooperazione richiede
risorse cerebrali minori di quanto si è finora creduto.
Da alcuni ricercatori di ambito evoluzionistico, nella ricostruzione delle tappe
filogenetiche dell’intelligenza animale, la cooperazione tra due o più
predatori per la caccia è stata considerata come un’importante tappa di
sviluppo dell’encefalo. Uno studio condotto da Kazushi
Tsutsui, Kazuya Takeda e Keisuke Fujii dell’Università di Nagoya in
Giappone dimostra che la caccia cooperativa non è evolutivamente associata allo
sviluppo di fini processi cognitivi come attualmente si ritiene. In precedenza,
in vari studi si è sostenuto che questo modo di procurarsi il cibo costituisce
un comportamento sociale complesso apparso nell’evoluzione dei
mammiferi, come provano le osservazioni e le descrizioni in leoni e scimpanzé. Per
deduzione, a questa cooperazione è stato attribuito un ruolo nello sviluppo
dell’intelligenza. Tsutsui e colleghi hanno
dimostrato che la caccia cooperativa è presente anche in specie di più basso
livello cognitivo. [Fonti: Nagoya University e eLife
doi: 10.7554/eLife.85694, 2024].
Scoperta una nuova specie di dinosauri
carnivori in Argentina. Resti di scheletri fossili trovati
in Patagonia (Argentina) hanno consentito di identificare un nuovo genere e una
nuova specie di abelisauridi furileusauriani
vissuti durante il Cretaceo. Gli abelisauridi, come
pressoché tutti i teropodi, erano bipedi carnivori. Pol e colleghi hanno
battezzato questa specie Koleken inakayali. Il nome del genere Koleken
significa “proveniente da acqua e argilla” nell’idioma locale ed era stato
riferito all’olotipo fossile MPEF-PV (resti di cranio e vertebra atlante)
trovato nel 2015, ma solo oggi è stato possibile definire questo nuovo genere
con un’unica specie identificata nel 2024. [Fonte: Enrico de Lazaro in Paleontology News, 22 maggio, 2024].
Una breve integrazione sulle iscrizioni
criptiche dell’antico Egitto alle precedenti notule
dal titolo: La scrittura criptica: psicologia del segreto, cultura
del mistero o semplice necessità strategica, pubblicata in due parti (Note
e Notizie 18-05-24 Notule – prima parte; Note e Notizie 25-05-24 Notule –
seconda parte) alle quali si rimanda chi non l’abbia ancora lette. È
stato osservato che nella prima parte era stato così annunciato un
rimando a questo argomento: “Rimandando a dopo il caso delle iscrizioni criptiche
sulle tombe egiziane, ossia il più semplice nella decifrazione e il più
misterioso nello scopo, prendiamo le mosse dall’uso nel mondo classico, come lo
apprendiamo direttamente da Svetonio, che ci riferisce di due casi, quello di
Cesare e quello di Ottaviano Cesare Augusto”. Ringraziando chi ha segnalato
questa dimenticanza, colmiamo volentieri la lacuna.
Nelle tombe egiziane sono stati reperiti
innumerevoli casi di scrittura cifrata, ma il caso che ha maggiormente attratto
l’attenzione, perché rimasto avvolto nel mistero, è quello in cui il testo è
presentato in due versioni affiancate: una stesura in chiaro, tracciata
utilizzando quella gamma di 700-800 segni pittografici egizi che costituiscono
la scrittura chiamata geroglifica nella tradizione greca, e una stesura
criptica, in un codice praticamente unico. Come si è già accennato, si tratta
del caso più semplice di decifrazione, una volta intuito che si tratta dello
stesso testo: estraendo i valori semantici dallo scritto in chiaro e riportandoli
sulle cifrature parallele, si scoprono facilmente le chiavi di decodifica che
valgono per tutto il testo. Ma la questione oscura e ancora dibattuta è il
perché: quale può essere il senso di una simile operazione?
Perché scrivere un testo da collocare in
un luogo che, dopo la cerimonia funebre, rimane chiuso e inaccessibile? Si può
immaginare: per i posteri, per i Faraoni che verranno. E in tal modo si può
spiegare l’uso delle iscrizioni funerarie, in generale. Ma che senso ha
ripetere lo stesso testo cifrandolo in un codice segreto?
Fra le ipotesi avanzate, due ci sembrano
avere una maggiore plausibilità: 1) la particolare cifratura criptica era stata
trasmessa o tramandata agli scribi come scrittura donata da una particolare
divinità e, dunque, gli esecutori delle iscrizioni possono averla adottata per
rivolgersi a quella divinità; 2) la forma criptica si riteneva fosse in grado
di conferire alle parole un potere “magico” non posseduto dai comuni
geroglifici, che non andavano oltre i valori logografico, fonetico e
pittografico.
La tesi del valore magico della
scrittura criptica è seguita da Giorgio Raimondo Cardona: “Ma un potente motivo
sarà stata anche la consapevolezza della forza magica della scrittura…”[1].
Tuttavia, Cardona non formula ipotesi circa
quale sarebbe stato l’effetto immaginato per la versione criptica dei testi
funerari, citando invece i casi in cui i geroglifici venivano troncati o
alterati perché si temeva che la scrittura completa di alcuni nomi o parole
potesse causare sventure o sciagure, secondo una convinzione comune a molti
popoli antichi, poi conservata come credenza popolare e sopravvissuta, nel
nostro Paese, nella superstizione di coloro che ritengono che il solo
pronunciare il nome di un individuo menagramo o iettatore porti
immediata sfortuna, causando un fatto o un evento negativo.
Leggiamo in Cardona: “…i molti casi in
cui una parola, un nome pericolosi sono scritti con geroglifici volutamente
mutilati e censurati, dunque resi innocui, ci fanno capire per converso che una
scrizione era efficace solo se completa ed esattamente scritta; del resto, in
tutte le tradizioni la formula pronunciata ha valore solo se pronunciata nella
sua esatta forma. È quindi possibile che molti casi di crittografia
rispondessero ad una sorta di cautela, dessero sì vita ai contenuti
scrivendoli, ma addomesticandone in qualche modo la potenza; l’inaccessibilità
delle tombe esclude invece che si volesse effettivamente nascondere il
significato dello scritto, giacché i testi funerari presupponevano che mai
nessun mortale avrebbe potuto leggerli”[2].
Non si può escludere una terza
possibilità, ossia che la versione criptica degli scritti funerari paralleli
fosse al contempo un testo esteso nella scrittura donata da un dio e avesse,
magari proprio per questo, un potere magico. [BM&L-Italia, giugno 2024].
Quante migliaia di volte è stata ripetuta
la falsità dal mese di febbraio quando l’abbiamo rilevata? È
un piccolo ma significativo esempio di come chi compra l’uso dei media
contribuisca a quella sottocultura mediatica che crea luoghi comuni su credenze
erronee diseducando i cittadini. Un massmediologo si è preso la briga di
contare quante migliaia volte dal mese di febbraio in cui abbiamo pubblicato
una notula (10-02-24) lo spot pubblicitario televisivo è stato mandato in onda
su reti nazionali ripetendo la falsità che la scienza non può distinguere un urlo
di rabbia da uno di gioia, mentre lo spettrogramma acustico è assolutamente
dirimente e, nella massima parte dei casi, la maggior parte delle persone ci riesce
a orecchio. Il numero è astronomico, ma non importa in quanto tale, perché cambia
aumentando di giorno in giorno. Se fossimo in una realtà in cui la civiltà e il
bene comune prevalgono sul valore del profitto si sfrutterebbe questo mezzo di
ripetizione per dire cose vere, giuste e utili. Ad esempio, uno spot contro il
razzismo in cui si dice che per la scienza non esistono le razze nella
realtà umana, ma solo varietà.
Ancora a febbraio, il 17, abbiamo
pubblicato la notizia di uno studio in cui si dimostra che le capre sono in
grado di distinguere nella voce umana la rabbia dalla gioia. Per comodità del
lettore riportiamo qui di seguito il contenuto della “Notula” del 10-02-24:
Non è vero ciò che ripete ossessivamente
una pubblicità televisiva, ossia che “per la scienza è impossibile distinguere
un urlo di rabbia da un urlo di felicità”. È assolutamente falso. Se è
possibile che ciascuno di noi, a un semplice ascolto, possa avere difficoltà in
alcuni casi a distinguere le due opposte emozioni in una vociferazione
spontanea, l’analisi dello spettrogramma acustico di un urlo offre elementi diacritici
ben distinti. Semplificando, si può spiegare così la differenza ad un ascolto
attento: le frequenze sonore dell’urlo di gioia sono più prossime a quelle
della voce cantata, quelle dell’urlo di rabbia sono più prossime a quelle di un
ruggito.
L’ideale, per combattere il formarsi di
questa falsa nozione nel cervello degli Italiani, sarebbe ottenere di far
mandare in onda uno spot di smentita ciascuna delle centinaia di migliaia di
volte che si manda in onda quello pubblicitario; non potendolo fare perché privi
di potere economico, ci accontentiamo di intervenire ogni tanto con queste
notule, sperando di informare correttamente almeno i visitatori del sito su
quanto sappiamo dagli studi di neurofisiologia e psicologia della percezione
del suono della voce umana. [BM&L-Italia, giugno 2024].
Abjad:
i numeri prima dei numeri e la vera tradizione della notazione araba. Sappiamo
tutti che la notazione universale dei numeri (1, 2, 3, 4, 5, ecc.) comunemente
detta delle “cifre arabe” proveniva in realtà dall’India, anche se non tutti
sanno che l’invenzione non è indiana, in quanto si tratta della progressiva
evoluzione asiatica di una notazione corsiva egiziana delle cifre.
Prima dell’introduzione in tutte le
culture del codice universale attuale, esistevano al mondo tanti modi diversi
di scrivere i numeri secondo tradizioni locali legate alla lingua, alla forma
di scrittura adottata e ai fenomeni storici interessanti le specifiche aree etno-geografiche. Sappiamo che l’analogia antropomorfica delle
cifre ha dominato nelle culture antiche, ma ragioni di spazio non ci consentono
di approfondire questo aspetto, e qui ci limitiamo a ricordare che il cinque dei
Romani antichi (V) era la stilizzazione di una mano aperta rivolta verso l’alto.
E sottolineiamo che un aspetto universale, perché connesso con le esigenze
comuni a tutti i cervelli nell’elaborazione della percezione visiva, consisteva
nell’adozione di segni che potessero essere riconosciuti a colpo d’occhio: se si
scrivono le cifre come trattini verticali, se sono pochi trattini si possono
facilmente riconoscere al primo sguardo, se sono molti si è costretti a
contarli; questo è il motivo del sistema sottrattivo e additivo dei Romani (IV
= 4; VI = 6; IX = 9; XI = 11). Sempre per una ragione di leggibilità immediata,
i Cinesi avevano scelto delle posizioni fisse e caratteristiche: il due lo
scrivevano con due trattini orizzontali come il nostro segno di “uguale” (=).
Ma, se le cifre arabe erano in realtà
cifre in corsivo egiziano modificate dagli Indiani, quali erano le vere cifre
arabe?
Si chiamava abjad
il modo di scrittura e seguiva un criterio che gli Arabi avevano assunto da
culture più antiche; presente infatti già nella Grecia arcaica e in quasi tutti
i popoli dotati di scrittura alfabetica: a ogni lettera dell’elenco è assegnato
un valore numerico, con le prime nove lettere che valgono le unità da 1 a 9, le
successive diciotto le decine da 20 a 90 e le centinaia da 100 a 900, mentre l’ultima
lettera araba vale 1000. Nell’uso dell’alfabeto con questo valore non si segue l’ordine
dell’arabo moderno, ma quello della tradizione più antica: a, b, j, d.
Questa tradizione gli Arabi l’avevano appresa da quelle dei tempi più remoti
della stessa area geografica, ossia dagli alfabeti fenicio, ebraico e
siriaco. Da “abjd” viene la parola mnemonica abjad che indicava appunto il sistema di codificare
i numeri con le lettere dell’alfabeto arabo. [BM&L-Italia, giugno 2024].
I fondamentalisti del “no”, il ritorno
alla natura mancato e il cupio dissolvi
nihilista. In questi giorni è venuta d’attualità in alcuni
convegni filosofici l’idea di riportare alcune tendenze ideologiche
contemporanee, quale quella di costituire gruppi di opposizione ad oltranza a terapie
mediche, usi culturali, provvedimenti politici e indirizzi economici, alle tesi
sostenute da Jean-Jacques Rousseau e altri filosofi del Settecento. L’accostamento
delle azioni dei “fondamentalisti del no” – che solo in piccola parte
propugnano il ritorno a una natura incontaminata contro ogni forma di civiltà –
a tesi filosofiche bene strutturate e a lungo dibattute negli anni precedenti
la Rivoluzione francese è stata presentata e criticata al Seminario sull’Arte
del Vivere della nostra società scientifica. Qui di seguito si riporta una
sintesi della discussione principale.
In Rousseau possiamo trovare la stessa
assoluta certezza nella pretesa infantile di idealizzare come totalmente
buona una realtà naturale degli inizi, che avrebbe preceduto la civiltà,
fonte di tutti i mali, ma non troviamo l’annientamento nihilistico dei fondamentalisti
del “no” odierni.
Per rendersene conto è sufficiente
leggere la risposta epistolare di Voltaire all’invio da parte di Jean-Jacques
Rousseau di una copia del suo Discours[3]:
Ho ricevuto, Monsieur, il vostro nuovo
libro contro la specie umana; ve ne ringrazio. Piacerete agli uomini, ai quali
dite le verità che li riguardano, ma non li emenderete. Non si può dipingere a
colori più vivi gli orrori della società umana… Non si è mai messo in opera
tanto ingegno nel volerci rendere bestie; vien voglia, leggendo la vostra opera,
di camminare a quattro zampe [marcher à quattre pattes]. Tuttavia,
essendo più di sessanta anni che ho perso questa abitudine, penso che mi sia
purtroppo impossibile riprenderla…
Ammettete [però] che né Cicerone, né
Varrone, né Lucrezio, né Virgilio, né Orazio ebbero la minima responsabilità
nelle proscrizioni… Ammettete che Petrarca e Boccaccio non provocarono i guai
dell’Italia…
I grandi delitti sono stati commessi da
famosi ignoranti. Ciò che fa e farà sempre di questo mondo una valle di lacrime
è la cupidigia insaziabile e l’orgoglio indomabile degli uomini… Le lettere
nutrono l’anima, la correggono, la consolano; sono al vostro servizio,
Monsieur, proprio mentre voi scrivete contro di loro…
Sono, molto filosoficamente e con la più
tenera stima, il vostro umilissimo e obbedientissimo servitore.
Voltaire
È evidente che, nonostante il
radicalismo provocatorio delle tesi di Rousseau e la sua ingenua concezione di
un paradiso naturale perduto, esiste un confronto di idee, un dibattito, in cui
Voltaire, senza fare sconti, rileva tutti gli errori di giudizio che si
commettono nel sostenere tesi pregiudiziali così puerilmente generalizzate ed
estremizzate, come nel dare le colpe degli uomini a degli oggetti astratti da
loro creati[4].
Con i fondamentalisti del “no” dei nostri giorni, invece non esiste dialogo,
perché non vogliono confronto, ma solo imposizione violenta della loro negazione;
non hanno interesse a conoscere, capire ed agire di conseguenza, ma solo ad
affermarsi distruggendo senso e valore. Rousseau aveva invece i suoi valori
ideali: da quelli connessi alla purezza di spirito e quelli propri della reciprocità
oblativa; le sue argomentazioni erano sbagliate, e Voltaire le confutava ma,
allo stesso tempo, aveva rispetto per il suo autore, perché ne ammirava il
credo in una possibilità di stare al mondo in un modo migliore di quello
presente.
Anche se l’aspetto del desiderio di tornare
allo stato di una natura incontaminata e all’idea che il male sia insito nella
conoscenza e nel progresso, ha consentito l’accostamento degli integralisti del
“no” ai protagonisti del nuovo pensiero del Settecento francese, la realtà ci
presenta una massa di persone nemica della riflessione e del pensiero,
impermeabile a ogni tentativo di presentare fatti e realtà contrari alle loro
tesi, e del tutto ferme e appiattite sui loro slogan. Proprio il
paragone con Rousseau – evidentemente scelto per alcune sue tesi estremiste –
evidenzia la particolarità “acefala”, ossia irragionevole più che semplicemente
irrazionale nella loro fissa staticità: sono bocche che parlano dicendo “no”, apparentemente
non collegate a un cervello.
L’esempio più lampante lo abbiamo con i “no
vax” ai quali è stato proposto in mille spiegazioni,
accessibili anche a bambini di dieci anni, come e perché i vaccini hanno
portato l’umanità da quella condizione in cui una mamma aveva sempre uno o due figli
morti o con esiti morbosi a vita per malattie infettive dell’infanzia, all’aver
eliminato questa causa di morte infantile e invalidità permanente.
Letteralmente migliaia di trasmissioni televisive in tutto il mondo hanno
presentato i fatti emersi dalle inchieste che dimostravano l’assoluta falsità
dell’autismo da vaccini, in cui chi aveva creato delle false prove era stato
corrotto e per questo era stato condannato, sia dalla magistratura sia dagli
organismi di controllo per l’integrità della ricerca scientifica.
Ma questi fondamentalisti, impermeabili
alla realtà, ripetono le falsità, le menzogne, le distorsioni e le invenzioni
di vent’anni fa. L’accostamento a Rousseau di coloro che si scagliano contro la
civiltà per colpire le conseguenze nefaste del modo in cui il progresso è stato
interpretato dal mondo è plausibile, ma solo se si osserva che si tratta di una
somiglianza esteriore di una breve fase del pensiero rousseauiano. Questa
gente, caratterizzata dal meccanismo psicologico che sostiene il fanatismo
religioso, non riflette, non ragiona, non vuol pensare, non vuol sapere, mentre
Rousseau, pur avendo ceduto inizialmente all’uso dell’artificio retorico di
impiegare argomenti a sostegno di una tesi non posta in discussione, riflette,
ragiona, cerca il giusto nel mondo del vero, e procede con tutte le risorse
della sua intelligenza in un cammino in cui conserva sempre una perfetta buona
fede. E, per questo, Rousseau cambia idea su molte cose; anzi, è portato d’esempio
per i suoi cambiamenti di dottrina sociale conseguenti alle diverse prospettive
che assume nel corso degli anni. I fondamentalisti del “no” sono idolatri dell’ignoranza
e nemici dell’intelligenza; Rousseau era un enciclopedista.
Rousseau era quasi anarchico nei primi
discorsi, perché non si limita a condannare la proprietà come i comunisti del
secolo successivo, ma condanna anche il governo e la legge; tuttavia, a brevissima
distanza di tempo, pur conservando la tesi dell’uomo “naturalmente buono”
incattivito dalla ricchezza e dalle istituzioni economiche, politiche e sociali,
nel suo scritto pubblicato nel V volume dell’Enciclopedia nel 1755 cambia
idea sul diritto di proprietà: “È evidente che il diritto di proprietà è il più
sacro fra tutti i diritti dei cittadini e sotto certi aspetti è più importante
della stessa libertà… La proprietà è il vero fondamento della società civile, e
la vera garanzia degli impegni dei cittadini”[5]. Ma
sostiene che la tassazione dei cittadini dovrebbe essere proporzionata alle
proprietà e “alla quantità di beni superflui che posseggono”[6]; e
specifica che non dovrebbero esistere tasse sul necessario, ma pesanti imposte
sul lusso. È interessante notare che continua a tuonare contro le ingiustizie
sociali e il favoritismo di classe espresso nelle leggi[7], e
sostiene che l’istruzione pubblica debba essere finanziata dallo Stato[8].
In altri scritti immediatamente successivi, corregge il tiro anche a proposito
degli argomenti del Discorso inviato a Voltaire, recependo una parte dei
rilievi critici del suo illustre lettore.
Il pensiero di Rousseau si evolve, è un work
in progress continuo, accetta la dialettica, la critica e cambia, anche
nelle tesi enunciate nella forma più apodittica ed estrema, perché è prodotto
da una testa pensante che ha un sincero interesse a sviluppare tesi che possano
far migliorare soprattutto moralmente la famiglia umana. La tesi di primordi
edenici di fratellanza idilliaca dell’umanità resiste pochi mesi. I
fondamentalisti del “no” sono fermi e fissi da decenni, costituendo un ambito incistato
nella società come ambiente chiuso in cui si entra rinunciando all’uso delle
proprie risorse di intelletto per impugnare i vessilli delle frasi fatte da
sbandierare, nella migliore delle ipotesi, o munirsi di tute, passamontagna e
armi, nelle ipotesi peggiori. Le analisi sociologiche del fenomeno sono
istruttive e dovrebbero farci comprendere che la cosa più impropria, inadeguata
e insensata che si possa fare è trattare e rispettare questa forma
chiusa, che si è comprata uno spazio di riconoscimento sociomediatico
a suon di quattrini, come fosse un’opinione politica.
Abbiamo trattato in numerose occasioni
dei black bloc in relazione ai no global, e non ritorneremo qui sulle
illuminanti osservazioni che sono state proposte dagli studiosi del fenomeno,
desideriamo solo evidenziare un aspetto: la disabitudine dell’uomo medio a
riflettere per sviluppare una propria visione delle cose, porta in questi giorni
ad equiparare quattro frasi di una propaganda ad una filosofia o a una
religione, a mettere sullo stesso piano una forma vuota diffusa da una
moda – ossia un altro genere di “forma vuota” – con lo sforzo di ricerca di
contenuti antropologici di un filosofo in confronto dialettico con i
protagonisti del pensiero della sua epoca.
Negli ultimi due decenni abbiamo
assistito, soprattutto nella diffusione mediante social media, ai
revival di idee, frasi e atteggiamenti di ogni sorta, hippie, underground,
new age, ecc., spacciati per novità assolute, ma sempre come “prodotti di
consumo visivo” che, al massimo, diventavano frasi a effetto da farsi tatuare
sulla pelle bene in vista, in mostra come orecchini, piercing e
chincaglieria varia di tendenza. Il mancato ritorno alla natura per motivi
sotto gli occhi di tutti – a cominciare dall’idolatria della sessualità che è
il trionfo dell’artificio, contro l’ordine della natura, che ha disposto il
sesso solo per la riproduzione e non per l’industria del “tempo libero”, per
finire con l’incapacità di rinunciare anche a una sola delle mille comodità
della vita post-industriale – ha rivelato che quell’idea era, come la maggior
parte delle suggestioni degli anni recenti, un tentativo di lanciare una moda senza
convinzione, da parte di persone pronte a cambiare il giudizio in base al
successo mediatico: una forma vuota. Dietro non c’erano teste pensanti, col
desiderio di comprendere e agire di conseguenza, ma solo superficiali utenti di
tutto che, alla prova dei fatti, se e quando devono agire in
proprio, e non per eseguire i comandi delle leggi, delle mode, del vantaggio e
del profitto, sanno solo distruggere, rivelandosi nella loro più pura identità
nihilista: produttori del nulla. [Fonte: Seminario Permanente sull’Arte del
Vivere, BM&L-Italia, giugno 2024].
Notule
BM&L-01 giugno 2024
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Giorgio Raimondo Cardona, Storia
Universale della Scrittura, p. 107, Edizione CDE (su licenza della Arnoldo Mondadori
Editore), Milano 1986.
[2] Giorgio Raimondo Cardona, op.
cit., p. 107.
[3] Will Durant così descrive questa
risposta: “La risposta di Voltaire è una delle gemme della letteratura, della
saggezza e delle buone maniere francesi” [Will e Ariel Durant in Rousseau e
la Rivoluzione (4 voll.) vol. I, p. 46, Edito-Service S. A., Ginevra, per
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968].
[4] Prendersela con la letteratura,
con la storia o con la scienza.
[5]
Cit. dal Social Contract (p. 271) in Will e Ariel Durant, Storia della
Civiltà – Rousseau e la Rivoluzione (4 voll.), vol. I, p.47, Arnoldo Mondadori
Editore ed Edito-Service Editore, Ginevra 1968.
[6] Will e Ariel Durant, op cit., idem.
[7] Will e Ariel Durant, op cit., idem.
[8] Will e Ariel Durant, op cit., idem.